domenica 28 dicembre 2008

AL LAVORO, NON ALLA GUERRA
Contro il capitalismo, per la sicurezza e la salute dei lavoratori

Ad un anno dalla strage alla Thyssen-Krupp di Torino le morti e gli infortuni sui luoghi di lavoro proseguono; dopo aver versato mille volte “lacrime di coccodrillo” ed aver promesso altre mille vol-te “ora basta” le istituzioni, i partiti e i sindacati di regime hanno lasciato che tutto continuasse co-me sempre; questo governo, anzi, si è impegnato da subito nello smantellamento di quel poco che era stato realizzato sull’onda emotiva proprio della strage di Torino ed è verosimile pensare che nella prossima fase le cose peggioreranno ulteriormente perché la crisi che si sta sviluppando di-minuisce il lavoro disponibile e fa aumentare il ricatto sui lavoratori.

Nel sistema politico, economico e sociale in cui viviamo - il capitalismo – ciò che “conta” è la rea-lizzazione di profitto; poiché la sicurezza è un costo questo sistema non esista e non esiterà a mette-re a repentaglio la nostra sicurezza, la nostra salute e infine la nostra stessa vita pur di risparmiare e guadagnare. Qualcuno fa finta di scandalizzarsi, qualcuno si scandalizza davvero. Ma perché do-vrebbe essere diversamente? Nel capitalismo, per definizione, si fanno gli interessi dei capitalisti. Una società in cui si considerano prioritari gli interessi sociali dei lavoratori si chiama un altro mo-do, si chiama socialismo. Nella società in cui viviamo ogni legge che non tuteli adeguatamente gli interessi dei padroni resta inapplicata oppure viene modificata.
Prendiamo il Testo unico sulla sicurezza approvato qualche mese fa, la cui unica innovazione con-creta era forse l’ipotesi di arresto per i padroni responsabili di infortuni gravi. Un po’ di pressioni da parte della Confindustria e il governo Prodi ha trasformato quella misura in una lieve sanzione pecuniaria. Una multa, insomma, che si aggiunge ai milioni di multe non pagate e che, ove anche pagata, non farebbe alle imprese né caldo né freddo.
Come se non bastasse, il 18 settembre scorso il ministro Sacconi ha emesso una “direttiva” nella quale suggerisce agli ispettori di andarci piano con i controlli e di sottoporre la sicurezza alla “con-certazione” tra le parti sociali, confidando sul fatto che in questa fase storica i rapporti di forza sono pesantemente sbilanciati a favore del padronato.
E prima ancora, il provvedimento che detassa gli straordinari (Legge 126/24 del luglio 2008) e quello sulla deregolamentazione del mercato del lavoro (Legge 133 del 5 agosto 2008).

Che le ASL non controllino granché lo sappiamo (o perché qualche ispettore è anche consulente delle imprese o perché pensa “in buona fede”, diciamo così, che ad applicare integralmente la legge poi le imprese chiudono e si perdono posti di lavoro); spesso anche i sindacati chiudono un occhio in cambio di qualche elemosina economica da presentare ai lavoratori per dimostrare che il sinda-cato, lui sì, che ottiene “risultati concreti”.
Quelle rare volte i padroni vengono condannati, le pene sono lievissime o inesistenti; quasi sempre inapplicate. Se non basta, c’è sempre un qualche indulto. Se “va bene”, c’è qualche risarcimento e-conomico, ma intanto i lavoratori continuano a morire e ad infortunarsi.
Come dichiarò qualche mese fa Bombassei, vice-presidente di Confindustria, il problema non è la repressione, ma la prevenzione. Giusto, a quelli come Bombassei bisognerebbe renderli inoffensivi preventivamente perché quando uno ormai è morto che se ne fa, in effetti, della condanna del pa-drone? Se ne fanno qualcosa le famiglie, certo, ma qui il problema è come si evitano i morti, non come si pagano i risarcimenti (che spesso però non vengono neppure pagati).
Ora, si può anche dire - come però si dice quasi sempre a sproposito - che sono i lavoratori stessi, talvolta, che sottovalutano i rischi che corrono. Questo non avviene per istinto suicida, ma perché i lavoratori vengono spinti dai padroni e dai capi a non farla tanto lunga e a farsi piacere il modo in cui si lavora “comunemente”, anzi, a considerarlo il modo “normale” di lavorare; ma quel modo non ha nulla di naturale perché è studiato appositamente per realizzare il massimo profitto e non certo per difendere la salute e la sicurezza dei lavoratori. È quindi illusorio pensare di difendere ef-ficacemente salute e sicurezza dei lavoratori senza mettere in discussione il modo - e dunque il mondo - in cui si lavora.

Il problema della sicurezza e della salute nei luoghi di lavoro non si risolve né in Parlamento, dove le leggi dei padroni si scrivono, né in tribunale, dove le leggi dei padroni si applicano, ma “si risol-ve” - se così si può dire - nella dinamica dello scontro di classe tra lavoratori e capitalisti. Ai padro-ni, il rispetto delle norme non si può chiedere, si deve imporre.
E affinché questo sia possibile è necessario che i lavoratori si organizzino dal basso andando oltre le proprie specifiche condizioni. Questo è lo spirito che anima i collettivi di Primomaggio: essere strumento di confronto e organizzazione tra lavoratori, italiani e immigrati, del Nord e del Sud, precari, disoccupati o a tempo indeterminato, sindacalizzati o meno… per realizzare quell’unità di classe senza la quale può solo dilagare la “guerra tra poveri” che il padrone usa per mantenere il proprio comando.

Il nostro, è il punto di vista di lavoratori che hanno compreso che il problema non è il singolo pa-drone, ma l’insieme di tutti i padroni, ivi compresi quelli “buoni” (Marchionne) o meno buoni (Ca-learo) con cui una certa “sinistra” vorrebbe farci stipulare “patti tra produttori”. Siamo lavorato-ri anti-capitalisti che hanno deciso di unirsi ed organizzarsi, aldilà delle differenze sindacali, na-zionali, contrattuali…, per unire ciò che il padrone cerca ogni giorno di dividere. Perché prima che a qualunque nazionalità, prima che a qualunque categoria, prima che a qualunque sindacato, noi apparteniamo ad un’unica classe.

Come sappiamo bene, la maggiore quantità di infortuni si concentra tra i precari, i lavoratori “a ne-ro”, gli immigrati... Il perché è evidente. Se sei precario e ti rifiuti di svolgere una certa mansione ti sbattono fuori o non ti rinnovano il contratto; senza tanti complimenti. Ora, a uno, a due, a tre po-sti di lavoro, un lavoratore può anche rinunciare, ma prima o poi qualche posto deve accettarlo al-trimenti non mangia. I lavoratori immigrati, ad esempio, quando perdono il lavoro perdono anche il permesso di soggiorno.
Ecco allora che la questione della precarietà sociale e lavorativa diventa una questione decisiva non solo per i diritti, non solo per il salario, ma anche per la sicurezza perché più i lavoratori si indebo-liscono e più la loro sicurezza e salute sono a rischio.
Questo è il motivo per cui stiamo conducendo da questa estate, assieme ad altri collettivi e movi-menti di lavoratori e delegati, una campagna contro l’attacco al contratto nazionale di lavoro (CCNL) sferrato dalla Confindustria e dai sindacati confederali (con la parziale ed ambigua ecce-zione della CGIL) per spostare il peso della contrattazione il più possibile sul secondo livello - che ha solo il 10% dei lavoratori - e restringere le norme sulla rappresentanza sindacale nei luoghi di lavoro, cioè sottomettere completamente RSU e RLS alle segreterie del sindacato di regime.
E questa è anche la ragione per cui ci siamo battuti contro il “pacchetto Treu” e la legge Biagi, non a caso promosse l'una dal centro-sinistra (con l'appoggio del PRC e della CGIL) e l'altra dal centro-destra.
Non tanto per impedire la loro applicazione - obbiettivo al di sopra delle nostri forze - quanto per segnalare che quando si tratta di fare gli interessi dei padroni (industriali o banchieri che sia-no) tutto lo schieramento parlamentare (dal PRC ad AN) e sindacale (dalla CGIL all'UGL), salvo di-stinguo più che altro di facciata, si ritrova nella logica neo-corporativa del “patto dei produttori” che vorrebbe unire padroni e lavoratori nel cosiddetto “interesse generale del paese” e che si risolve in sostanza nella ulteriore sottomissione dei lavoratori al capitale.

Più i lavoratori corrono rischi e meno guadagnano. Sembra un paradosso, ma non è un parados-so: è il capitalismo. Ecco perché, come avrebbe detto un vecchio compagno di cui si ricomincia a parlare in questa epoca di tracolli finanziari, a dare un calcio nel culo al capitalismo i lavoratori non hanno nulla da perdere, se non le proprie catene. Sono i padroni che hanno tutto perdere. Loro, senza di noi, non potrebbero vivere; noi, senza di loro, vivremmo meglio. Anzi, vivremmo.

Torino, 6 dicembre 2008

Le lavoratrici e i lavoratori delle redazioni di Primomaggio
foglio per collegamento tra lavoratori, precari disoccupati

EMAIL: primomaggio.info@virgilio.it
WEB: http://xoomer.virgilio.it/pmweb
TEL: 339.4505810, 339.6473677, 348.2900511, 340.4063172

venerdì 19 settembre 2008

Presentazione de "IL CICLO SGONFIATO"

Sabato 4 ottobre 2008 - ore 15
c/o Centro Culturale e di Documentazione "Bertolt Brecht"
Piazzatta San Gaetano, SCHIO (VI)

Info: centro_brecht@alice.it, 348.2900511
WEB: www.antiper.org

mercoledì 17 settembre 2008

WU MING. Dopo un omicidio razzista: note di testimonianza e scrittura

WU MING
DOPO UN OMICIDIO RAZZISTA: NOTE DI TESTIMONIANZA E SCRITTURA

L'omicidio di Abdul Guibre a Milano ha colto di sorpresa molti "addormentati nel bosco" (veri e finti), tra i quali non ci annoveriamo. Nella storia recente di questo paese l'omicidio a sfondo razziale non è affatto una novità. Nemmeno la strage razzista lo è: è strage razzista quella in cui le morti pesano meno di piume, perché le vittime sono diverse da noi e inferiori (come nello speronamento della Kater I Rades). E' prassi corrente anche la profanazione del cadavere del negro: si pensi ai corpi pescati e rigettati a mare tipo secchiata di pattume (come dopo la strage di Portopalo).

L'episodio dell'altro giorno sta giustamente suscitando orrore in chi ha ancora capacità di provarne. Ha "forato" l'attenzione per via della dinamica para-klanista, perché è avvenuto alla luce del sole e per il periodo di sconforto generale in cui avviene, sconforto che attanaglia la fu sinistra etc.
La morte di Guibre ci carica d'angoscia, tuttavia aggressioni in cui "ci è scappato" il morto (o non ci è scappato per puro caso) ne abbiamo viste eccome. Casi di omicidio razzista, commessi anche da forze dell'ordine e sovente mascherati da "incidenti" (perché loro hanno i mezzi per mascherarli) ne abbiamo visti eccome. E quanti strani "collassi", "suicidi" et similia avvenuti nei CPT fanno capolino in brevi lanci d'agenzia? E pestare a morte un ragazzo perché ha il codino e un aspetto, ehm, "di sinistra" è forse meno spregevole e meno "razzista" che ucciderlo per il colore della pelle?
Tutto questo non è iniziato dopo la terza vittoria del centrodestra. Il Walter Veltroni che oggi denuncia l'odio e chi lo fomenta è lo stesso che, sulla base di una colpa individuale, dopo l'omicidio Reggiani spedì ruspe e vigili a compiere una rappresaglia contro centinaia di persone, bimbi compresi, gettando benzina sulle fiamme del razzismo.
Del resto non è la prima volta, quel tale link lo abbiamo già visto accusare altri di cose che aveva fatto anche lui, più o meno uguali o addirittura peggiori, quand'era al governo.

Nell'ultimo anno tanti intellettuali (passateci il termine) e scrittori, anche e soprattutto scrittori attivi in rete, si sono fatti la gola rossa e piena di placche a furia di denunciare quest'escalation, decostruire miti e leggende d'odio, fare informazione su quello che stava e sta accadendo, l'incrudelimento del clima, la voglia di capri espiatori e linciaggi.
Si va dal partecipatissimo - ma privo di conseguenze - appello link "Il triangolo nero", scritto dopo la "caccia al rumeno" seguita all'omicidio Reggiani, a decine di post, articoli, analisi, racconti e reportages apparsi su Carmilla, Nazione Indiana (preziosa link la sezione "Razzismi quotidiani"), Il Primo Amore (dove si denunciava la caccia ai Rom ben prima che facesse notizia sui media nazionali, quando l'unico a parlarne con serietà era Gad Lerner) e Lipperatura, passando per svariati numeri di Giap con interventi sul tema, link a volte veri e propri dossier.
Tanti colleghi - citiamo a caso Alberto Prunetti (sua una minuziosa disamina dei link "Luoghi comuni contro Rom e Sinti), link Marco Rovelli, Andrea Inglese, Valerio Evangelisti, Sergio Baratto, Helena Janeczek, Lello Voce, Giulio Mozzi, Gianni Biondillo, Loredana Lipperini, Beppe Sebaste, Leonardo Colombati e moltissimi altri - hanno scritto, sviscerato, testimoniato. Alcuni di loro hanno promosso e organizzato eventi contro il razzismo (es. nel gennaio scorso link il reading degli scrittori veneti in piazza a Treviso).
Nel frattempo si sono moltiplicate le aggressioni di stampo fascista (qui link un elenco in PDF aggiornato quotidianamente), e abbiamo dovuto fare frustranti "dediche" a sempre nuovi morti, da Renato Biagetti a Nicola Tommasoli, da link Giuliano Bruno ad Abdul Guibre. Inascoltate voci nel deserto, link da tempi non sospetti poche persone (tra cui noialtri) denunciano il ritorno della violenza nera per le strade delle nostre città.

Questo sforzo collettivo è uno sforzo di testimonianza. La testimonianza va bene sul medio-lungo periodo, ha un effetto cumulativo, di sedimentazione. Sul periodo breve, invece, abbiamo grossi problemi. Se le armi della critica non trovano una forza materiale per esprimersi, non hanno effetti pratici, non fermano le spranghe, non impediscono i pestaggi, e per quanto si usi la parola ci si sente impotenti. Al momento quella forza materiale, se pure ci fosse, non trova canali per esprimersi.

Noi scrittori, ad ogni modo, dobbiamo compiere un lavoro in più. Dobbiamo sì esprimerci come cittadini, ma abbiamo anche il dovere di affrontare queste urgenze con la lingua e gli strumenti che sono propri della nostra attività. Dobbiamo moltiplicare le occasioni in cui interrogarci insieme su come affrontare tutto questo attraverso la letteratura e la narrazione - attraverso una lingua che non sia quella frusta del cronismo o peggio, del benintenzionato volantino, dell'incazzoso sito di controinformazione.
La letteratura può dare un contributo importante - un contributo specifico, suo proprio - alla lotta contro il razzismo. Lotta che, se vuole essere efficace, non può limitarsi a difendere chi subisce il razzismo, ma deve puntare a smontare le comunità immaginarie che dal razzismo sono costruite e tenute insieme:
- la comunità degli "Occidentali";
- la subcomunità degli "Italiani";
- la sub-subcomunità dei "Padani";
- le varie sub-sub-subcomunità di strapaese e strapaesello.
La letteratura può aiutare a farlo, perché può seminare il dubbio mettendoci in panni altrui, sostituire al nostro altri punti di vista, farci uscire dai confini della nostra esperienza diretta.
Nel link memorandum sul NIE (versione 2.0) Wu Ming 1 scrive:

Stiamo sempre alle opere: i libri NIE raccontano forse una comunità nazionale, il "popolo italiano" col suo fantomatico "carattere" (fatto di "arte d'arrangiarsi" e generosità, perenne verve e simpatia anche in faccia alle avversità), oppure raccontano le lacerazioni, il divergere e divenire caotico, le deterritorializzazioni e riterritorializzazioni nel corpo frollato di un paese implodente, razzista e illividito? Non ho dubbi su come rispondere. Quella che cerco di fotografare è un'epica della differenza e della moltitudine, un'epica delle anomalie e del bellum intestinum che corre lungo la storia del nostro paese. Quando certi editorialisti se la prendono con Gomorra per come descrive agli stranieri l'Italia, la sua società, la sua economia, e imputano al libro di "infangare la nostra reputazione", ebbene, colgono nel segno. Un raccontare non addomesticato non può che infangare la loro reputazione. Come sbraitava quel tale, facciamo passeggiare i lettori per le fogne.

Biondillo e Rovelli, ciascuno a suo modo, ci hanno mostrato l'interno di un CPT. Moresco ha scritto Zingari di merda. Le migrazioni e i razzismi sono temi trattati in modo esplicito o implicito in molta narrativa italiana degli ultimi anni, e diversi romanzi affrontano i nodi del colonialismo italiano, dell'imperialismo fascista, delle origini del nostro razzismo alimentato da "belle abissine", "italiani brava gente" e "bongo stare bene solo al Congo".
E' qualcosa, è importante, bisogna sforzarsi di più. Ci vuole un'epica adeguata, un'epica delle migrazioni e dei migranti, del razzismo e dell'antirazzismo, delle comunità che nascono e di quelle che muoiono. Lavorare sulle connotazioni, scavare la lingua, evocare per suoni e immagini la sofferenza, gli sforzi, le marce forzate, gli imbarchi...

Cantami o musa delle cause e dell'offesa
quanto può un eroe patire per trovare casa
partendo da Troia passando per Cartagine
per raccontare a tutti qual è la nostra origine
attraverso Scilla, Cariddi e il Tevere
un'epopea del genere non sarà mai cenere...

...raccontare le discriminazioni quotidiane ma anche il crimine, i soprusi, le nuove mafie e tratte e schiavitù (perché non servono narrazioni "buoniste" in cui i migranti siano vittime immacolate). E bisogna che si alzino nuove voci "post-italiane" o "italo-ibride", che nascano progetti comuni tra narratori coi piedi in mondi diversi, in squilibrio tra origini e culture.
[Sta succedendo, inizia a succedere, nell'indifferenza di chi si lagna che non succede nulla. Su questo piano - quello di una sua letteratura "postcoloniale" - l'Italia è indietro, e ciò significa che queste letterature saranno diverse da quelle sviluppatesi altrove. Questo paese ha una feconda tradizione di "ritardi trasformativi".]

un'epopea del genere non sarà mai cenereCosì quando vediamo in giro uno straniero
pensiamo a Enea, a Virgilio, all'Ulisse di Omero
si chiami Zapatero, si chiami Sarkozy
diciamo a 'sti signori qui: chiudiamo i CPT!
lasciamo free (sì free!) chi ha un profugo destino
non chiamiamo mai un uomo clandestino...

Ci stiamo provando, cerchiamo di cogliere ogni occasione per provarci.
Quando Giancarlo De Cataldo ci ha chiesto un racconto per l'antologia Crimini italiani siamo tornati con la mente a una storia di qualche anno fa, una storia vera, l'uccisione di un migrante da parte di forze dell'ordine, in circostanze che fanno pensare a un'esecuzione a freddo, esecuzione priva di movente a parte la pelle nera della vittima. Quel che è certo è che la versione ufficiale diffusa a suo tempo dai media aveva elementi di insensatezza, di assurdo alla Lewis Carroll.
link Momodou si ispira a quella vicenda, descrive l'uccisione di un migrante africano in un imprecisato Sud Italia, descrive quel che accade subito prima e subito dopo la morte, e poi risale più indietro nel tempo, all'infanzia della vittima e a quella del carnefice. Nei limiti posti dal formato breve, abbiamo cercato di raccontare - per accumulo di dettagli, ricordi, scambi di frasi - la comunità generata dal razzismo. Anzi, due comunità generate dal razzismo, perché nemmeno la comunità delle vittime sarebbe la stessa in assenza di razzismo.

Insomma, provarci.
Senza mai dimenticare che tutto questo non cade dal cielo. Il razzismo è un principio regolatore del mercato del lavoro. L'aumento del razzismo è una conseguenza della "guerra tra poveri". La guerra tra poveri è la conseguenza (cercata, pianificata) di precise scelte politiche ed economiche.

Ci sono stati santi, guerrieri, eroi, e ladri
l'Eneide è il racconto dei padri dei padri
sotto queste mura di tutti noi romani
scorre anche il sangue di popoli lontani
e ci scusi la maestra per qualche licenza
non proprio all'altezza ma capisca anche l'urgenza... (*)

Gettiamo queste note nel dibattito. Fatene l'uso che volete.

* Assalti frontali, Enea Super Rap, 2008

sabato 13 settembre 2008

CAAAV. Referendum NO DAL MOLIN. SI, CONTRO LA BASE DI GUERRA

5 OTTOBRE 2008 - REFERENDUM “NO DAL MOLIN”
SI, CONTRO LA BASE DI GUERRA

L’Amministrazione comunale di Vicenza ha fissato per il 5 ottobre il referendum che chiamerà i cittadini a pronunciarsi sul seguente quesito: “È lei favorevole alla adozione da parte del consiglio comunale di Vicenza, nella sua funzione di organo di indirizzo politico amministrativo, di una deliberazione per l'avvio del procedimento di acquisizione al patrimonio comunale, previa sdemanializzazione, dell'area aeroportuale “Dal Molin” - ove è prevista la realizzazione di una base militare statunitense - da destinare ad usi di interesse collettivo?”.

Noi non siamo troppo amanti dei referendum. In una società in cui i mezzi per la formazione del consenso sono tutti in mano alle forze politiche e sociali dominanti, la possibilità di ribaltare gli esiti attraverso il voto (elettorale o referendario) è sempre molto remota. Tra l’altro, quello del 5 ottobre, è un referendum consultivo che non ha effetti pratici diretti, anche nel caso in cui venisse vinto da chi si oppone al Dal Molin militare (visto che, tra l’altro, l’acquisto dell’area da parte del Comune è subordinato - come dice il quesito - alla sdemanializzazione dell’area e Berlusconi ha già dichiarato che lo Stato non ha alcuna intenzione di sdemanializzare, cioè di vendere).

Ma ormai il referendum è promosso e si tratta di esprimere una posizione che per noi, a questo punto, è quella del SI.

SI ad andare a votare, SI nel voto del 5 ottobre, SI, soprattutto, a sviluppare una campagna di sensibilizzazione, non solo sugli effetti ambientali ed urbanistici della costruzione della base, ma soprattutto sui suoi effetti politici, sociali, culturali.

Perché il nuovo sindaco Variati abbia voluto il referendum è abbastanza facile intuirlo. Se vince il NO il centro-sinistra avrà mano libera nell’accelerare l’avvio dei lavori (che lo coinvolgono non solo per la propria subalternità politica agli USA, ma soprattutto in quanto a costruire saranno anche le “cooperative rosse”); se vince il SI la “patata bollente” dal punto di vista politico-mediatico passa nelle mani di Berlusconi che confermando il via libera ai lavori dovrà mettersi, gioco forza, contro “la città di Vicenza”. E in ogni caso, Variati farà la bella figura di chi ha voluto ascoltare la voce dei cittadini, cosa che Hüllweck non ha voluto fare. Insomma, comunque vada, Variati ci ricava qualcosa, e senza ostacolare i piani americani. Per il nuovo Sindaco di Vicenza si tratta, in sostanza, di una battaglia contro Berlusconi e non certo contro la costruzione della base (a cui il governo Prodi - dal PRC a Mastella -, è bene non dimenticarlo, aveva dato a suo tempo il via libera). È questo che spinge Berlusconi ad esprimere platealmente la propria avversione al referendum e a chiederne l’annullamento.

Variati tenta di impostare la questione Dal Molin nei termini di una questione amministrativa (“compriamo l’area e ci facciamo attività sociali”) per evitare che il referendum diventi una battaglia pro/contro la politica di guerra degli USA; ecco perché noi, al contrario, riteniamo che si debba politicizzare il più possibile il referendum chiedendo ai vicentini di esprimersi non solo e non tanto sull’impatto ambientale-urbanistico della base, quanto soprattutto sul suo impatto politico-sociale e umano, di esprimersi pro o contro la costruzione di basi che servono a garantire gli interessi economici e strategici dell’imperialismo, in particolare quello statunitense, e che sono la causa del massacro di intere popolazioni, alle quali abbiamo portato “pace e democrazia” a colpi di uranio impoverito, fosforo bianco o torture come ad Abu Ghreib.

Ecco perché noi non chiameremo i cittadini di Vicenza a dire sì o no al quesito posto da Variati, ma a dire sì o no al seguente quesito: “Cittadini di Vicenza, volete voi la costruzione o l’ampliamento di basi militari americane sul vostro territorio che oltre a creare problemi di impatto ambientale di vario genere, sono destinate ad essere usate in interventi di guerra che hanno il solo scopo di difendere e promuovere gli interessi economici del capitalismo USA (e non solo), depredando le ricchezze di altri popoli con la scusa di portare loro la democrazia?” Quando voteremo sì, facciamolo per queste ragioni senza abbassarci, anche se per ragioni opposte, all’infimo livello dei sostenitori del NO (ovvero del SI Dal Molin) disposti, per qualche spicciolo, a vendere ogni ragione di umanità e di civiltà.

Un referendum vinto per evitare l’aumento del traffico e non per evitare la morte di centinaia di migliaia di persone innocenti non servirebbe a nulla, neppure se avvenisse il miracolo e alla fine la base non si costruisse. Sul terreno dell’egoismo non cresce certo la pianta della solidarietà. E noi non avremo mai nessuna comprensione per chi vuole il giardino pulito senza preoccuparsi se altri vivono nelle discariche. Tanto varrebbe, nel caso, mandare al diavolo i vicentini e le loro preoccupazioni sulla perdita di valore commerciale degli immobili.

Ma se Vicenza, dicendo no al Dal Molin militare, dirà no alla guerra dell’imperialismo allora avrà dato un grande messaggio di civiltà; certo, il referendum è solo un passaggio, la battaglia andrà comunque avanti, anche se il referendum venisse vinto, anche se la base venisse costruita. Perché sempre ci sarà bisogno di lottare contro la guerra del capitale e per una nuova società, sempre ci sarà bisogno di lottare contro la morte, per la vita.

Alto Vicentino, settembre 2008

Gruppo promotore per un Coordinamento
antimperialista antifascista dell’Alto Vicentino

Per informazioni contattare: EMAIL: c_aaav@alice.it
TEL: 340.4063172 (Vicenza) – 348.2900511 (Schio) – 340.4947998 (Bassano del Grappa)
c/o Centro Brecht – Schio – Vi

Centro Culturale e di Documentazione "Bertolt Brecht"
Piazzetta San Gaetano, 1 Schio (VI)
EMAIL: centro_brecht@alice.it
Tel. 348.2900511

***

Costruiamo un organismo, antimperialista e antifascista, permanente, diffuso sul territorio, aperto alle diverse culture politiche, capace di sviluppare una incisiva battaglia politica e culturale tanto contro la guerra imperialista a fianco del popoli che resistono, tanto contro il risorgere di bassi istinti razzisti e fascisti.

Invitiamo chiunque sia interessato a prendere contatti con il Centro culturale e di documentazione Bertolt Brecht

domenica 7 settembre 2008

CAAAV. Solidarietà ai manifestanti NO DAL MOLIN

Esprimiamo la nostra piena solidarietà ai manifestanti che ieri a Vicenza hanno subito una brutale carica da parte della polizia, in occasione del presidio organizzato nei pressi dell’Aeroporto Dal Molin.
Non sarà sicuramente l’uso gratuito della violenza a fermare la mobilitazione di chi è contrario alla costruzione di una fabbrica di morte.

Centro Culturale e di Documentazione "BERTOLT BRECHT"
Piazzetta San Gaetano, 1 Schio (VI)
EMAIL: centro_brecht@alice.it


martedì 12 agosto 2008

Attivo sito Internet ANTIPER

Da ieri è attivo anche il sito di ANTIPER www.antiper.org.
Sul sito è presente il nuovo documento "Il ciclo sgonfiato. Riflessioni aperte sulla situazione politica italiana dopo le elezioni del 13-14 aprile 2008"; sono presenti anche altri documenti elaborati nel corso di questi anni.

giovedì 5 giugno 2008

IL COMANDANTE MANUEL MARULANDA VELEZ E' MORTO.
Ma morire per il popolo e con il popolo è vivere per sempre. 

Il 26 marzo 2008 è morto per un infarto Manuel Marulanda Velez, fondatore delle FARC-EP (Fuerzas Armadas Revolucionaries de Colombia - Ejercito del Pueblo). E' una perdita immensa che si aggiunge a quelle recenti di Raul Reyes (assassinato in Equador dai macellai di Uribe con l'appoggio degli USA) e di Ivan Rios (venduto agli americani da alcuni traditori).
Tutti i giornali del mondo si affannano a descrivere le FARC come un’organizzazione ormai allo sbando con interi settori della guerriglia e dei prigionieri politici pronti a trattare la liberazione della prigioniera Ingrid Betancourt e la cattura di altri militanti in cambio della propria incolumità.
In una organizzazione rivoluzionaria il pericolo di tradimento è sempre presente.
La lotta guerrigliera e rivoluzionaria è una lotta dura in cui sono tanti i momenti in cui si è costretti ad interrogare sé stessi. Le difficoltà, le rinunce, la paura sono sentimenti umani che si vincono solo attraverso la convinzione più profonda e con il più profondo spirito di sacrificio.
Impegnare la propria intera esistenza, come Marulanda, nella lotta per il popolo e con il popolo, per la libertà, la sovranità, il diritto ad una esistenza migliore è certamente un sacrificio, un impegno enorme che però ogni rivoluzionario spende con gioia nella certezza di essere parte di un grande processo di emancipazione universale dell’uomo, dallo stato della necessità allo stato della libertà.
Molte volte le FARC sono state date per spacciate ed invece, da 44 anni, continuano a portare avanti la propria battaglia contro nemici potentissimi come lo stato e le organizzazioni paramilitari colombiane collusi con i narco-trafficanti, contro le truppe speciali nord-americane armate e finanziate da Washington per sconfiggere la più longeva guerriglia del mondo... Le forze contro-rivoluzionarie che operano in Colombia sono ostenute da investimenti economico e militari straordinari come solo in pochi paesi è avvenuto. Non c'è da meravigliarsi. La lotta rivoluzionaria delle FARC-EP è stata un punto di riferimenti in tutta l'America Latina e nel mondo, dimostrando che nessun nemico è invincibile quando si lotta assieme al popolo. Anche stavolta le FARC resisteranno e la lotta proseguirà.
La perdita di un leader come Marulanda che può essere a buon titolo posto tra i grandi lottatori sociali latino-americani come Bolivar, Martì, Sandino, Guevara... è un perdita dura, sul piano umano oltre che sul piano politico.
Ma tutti noi siamo mortali. E anche Manuel Marulanda Velez, dopo 60 anni di lotta, ci ha lasciato; morto nel corpo, ma vivo nel prosieguo della lotta che del suo insegnamento di vita farà tesoro. Un saluto fraterno alle Forze Armate Rivoluzionare della Colombia – Esercito del Popolo.
Un saluto a Manuel Marulanda Velez, comandante rivoluzionario. Morire per il popolo è vivere per sempre. 

Italia, maggio 2008

Laboratorio Marxista
Compagne e compagni veneti per un’organizzazione politica marxista