domenica 28 dicembre 2008

AL LAVORO, NON ALLA GUERRA
Contro il capitalismo, per la sicurezza e la salute dei lavoratori

Ad un anno dalla strage alla Thyssen-Krupp di Torino le morti e gli infortuni sui luoghi di lavoro proseguono; dopo aver versato mille volte “lacrime di coccodrillo” ed aver promesso altre mille vol-te “ora basta” le istituzioni, i partiti e i sindacati di regime hanno lasciato che tutto continuasse co-me sempre; questo governo, anzi, si è impegnato da subito nello smantellamento di quel poco che era stato realizzato sull’onda emotiva proprio della strage di Torino ed è verosimile pensare che nella prossima fase le cose peggioreranno ulteriormente perché la crisi che si sta sviluppando di-minuisce il lavoro disponibile e fa aumentare il ricatto sui lavoratori.

Nel sistema politico, economico e sociale in cui viviamo - il capitalismo – ciò che “conta” è la rea-lizzazione di profitto; poiché la sicurezza è un costo questo sistema non esista e non esiterà a mette-re a repentaglio la nostra sicurezza, la nostra salute e infine la nostra stessa vita pur di risparmiare e guadagnare. Qualcuno fa finta di scandalizzarsi, qualcuno si scandalizza davvero. Ma perché do-vrebbe essere diversamente? Nel capitalismo, per definizione, si fanno gli interessi dei capitalisti. Una società in cui si considerano prioritari gli interessi sociali dei lavoratori si chiama un altro mo-do, si chiama socialismo. Nella società in cui viviamo ogni legge che non tuteli adeguatamente gli interessi dei padroni resta inapplicata oppure viene modificata.
Prendiamo il Testo unico sulla sicurezza approvato qualche mese fa, la cui unica innovazione con-creta era forse l’ipotesi di arresto per i padroni responsabili di infortuni gravi. Un po’ di pressioni da parte della Confindustria e il governo Prodi ha trasformato quella misura in una lieve sanzione pecuniaria. Una multa, insomma, che si aggiunge ai milioni di multe non pagate e che, ove anche pagata, non farebbe alle imprese né caldo né freddo.
Come se non bastasse, il 18 settembre scorso il ministro Sacconi ha emesso una “direttiva” nella quale suggerisce agli ispettori di andarci piano con i controlli e di sottoporre la sicurezza alla “con-certazione” tra le parti sociali, confidando sul fatto che in questa fase storica i rapporti di forza sono pesantemente sbilanciati a favore del padronato.
E prima ancora, il provvedimento che detassa gli straordinari (Legge 126/24 del luglio 2008) e quello sulla deregolamentazione del mercato del lavoro (Legge 133 del 5 agosto 2008).

Che le ASL non controllino granché lo sappiamo (o perché qualche ispettore è anche consulente delle imprese o perché pensa “in buona fede”, diciamo così, che ad applicare integralmente la legge poi le imprese chiudono e si perdono posti di lavoro); spesso anche i sindacati chiudono un occhio in cambio di qualche elemosina economica da presentare ai lavoratori per dimostrare che il sinda-cato, lui sì, che ottiene “risultati concreti”.
Quelle rare volte i padroni vengono condannati, le pene sono lievissime o inesistenti; quasi sempre inapplicate. Se non basta, c’è sempre un qualche indulto. Se “va bene”, c’è qualche risarcimento e-conomico, ma intanto i lavoratori continuano a morire e ad infortunarsi.
Come dichiarò qualche mese fa Bombassei, vice-presidente di Confindustria, il problema non è la repressione, ma la prevenzione. Giusto, a quelli come Bombassei bisognerebbe renderli inoffensivi preventivamente perché quando uno ormai è morto che se ne fa, in effetti, della condanna del pa-drone? Se ne fanno qualcosa le famiglie, certo, ma qui il problema è come si evitano i morti, non come si pagano i risarcimenti (che spesso però non vengono neppure pagati).
Ora, si può anche dire - come però si dice quasi sempre a sproposito - che sono i lavoratori stessi, talvolta, che sottovalutano i rischi che corrono. Questo non avviene per istinto suicida, ma perché i lavoratori vengono spinti dai padroni e dai capi a non farla tanto lunga e a farsi piacere il modo in cui si lavora “comunemente”, anzi, a considerarlo il modo “normale” di lavorare; ma quel modo non ha nulla di naturale perché è studiato appositamente per realizzare il massimo profitto e non certo per difendere la salute e la sicurezza dei lavoratori. È quindi illusorio pensare di difendere ef-ficacemente salute e sicurezza dei lavoratori senza mettere in discussione il modo - e dunque il mondo - in cui si lavora.

Il problema della sicurezza e della salute nei luoghi di lavoro non si risolve né in Parlamento, dove le leggi dei padroni si scrivono, né in tribunale, dove le leggi dei padroni si applicano, ma “si risol-ve” - se così si può dire - nella dinamica dello scontro di classe tra lavoratori e capitalisti. Ai padro-ni, il rispetto delle norme non si può chiedere, si deve imporre.
E affinché questo sia possibile è necessario che i lavoratori si organizzino dal basso andando oltre le proprie specifiche condizioni. Questo è lo spirito che anima i collettivi di Primomaggio: essere strumento di confronto e organizzazione tra lavoratori, italiani e immigrati, del Nord e del Sud, precari, disoccupati o a tempo indeterminato, sindacalizzati o meno… per realizzare quell’unità di classe senza la quale può solo dilagare la “guerra tra poveri” che il padrone usa per mantenere il proprio comando.

Il nostro, è il punto di vista di lavoratori che hanno compreso che il problema non è il singolo pa-drone, ma l’insieme di tutti i padroni, ivi compresi quelli “buoni” (Marchionne) o meno buoni (Ca-learo) con cui una certa “sinistra” vorrebbe farci stipulare “patti tra produttori”. Siamo lavorato-ri anti-capitalisti che hanno deciso di unirsi ed organizzarsi, aldilà delle differenze sindacali, na-zionali, contrattuali…, per unire ciò che il padrone cerca ogni giorno di dividere. Perché prima che a qualunque nazionalità, prima che a qualunque categoria, prima che a qualunque sindacato, noi apparteniamo ad un’unica classe.

Come sappiamo bene, la maggiore quantità di infortuni si concentra tra i precari, i lavoratori “a ne-ro”, gli immigrati... Il perché è evidente. Se sei precario e ti rifiuti di svolgere una certa mansione ti sbattono fuori o non ti rinnovano il contratto; senza tanti complimenti. Ora, a uno, a due, a tre po-sti di lavoro, un lavoratore può anche rinunciare, ma prima o poi qualche posto deve accettarlo al-trimenti non mangia. I lavoratori immigrati, ad esempio, quando perdono il lavoro perdono anche il permesso di soggiorno.
Ecco allora che la questione della precarietà sociale e lavorativa diventa una questione decisiva non solo per i diritti, non solo per il salario, ma anche per la sicurezza perché più i lavoratori si indebo-liscono e più la loro sicurezza e salute sono a rischio.
Questo è il motivo per cui stiamo conducendo da questa estate, assieme ad altri collettivi e movi-menti di lavoratori e delegati, una campagna contro l’attacco al contratto nazionale di lavoro (CCNL) sferrato dalla Confindustria e dai sindacati confederali (con la parziale ed ambigua ecce-zione della CGIL) per spostare il peso della contrattazione il più possibile sul secondo livello - che ha solo il 10% dei lavoratori - e restringere le norme sulla rappresentanza sindacale nei luoghi di lavoro, cioè sottomettere completamente RSU e RLS alle segreterie del sindacato di regime.
E questa è anche la ragione per cui ci siamo battuti contro il “pacchetto Treu” e la legge Biagi, non a caso promosse l'una dal centro-sinistra (con l'appoggio del PRC e della CGIL) e l'altra dal centro-destra.
Non tanto per impedire la loro applicazione - obbiettivo al di sopra delle nostri forze - quanto per segnalare che quando si tratta di fare gli interessi dei padroni (industriali o banchieri che sia-no) tutto lo schieramento parlamentare (dal PRC ad AN) e sindacale (dalla CGIL all'UGL), salvo di-stinguo più che altro di facciata, si ritrova nella logica neo-corporativa del “patto dei produttori” che vorrebbe unire padroni e lavoratori nel cosiddetto “interesse generale del paese” e che si risolve in sostanza nella ulteriore sottomissione dei lavoratori al capitale.

Più i lavoratori corrono rischi e meno guadagnano. Sembra un paradosso, ma non è un parados-so: è il capitalismo. Ecco perché, come avrebbe detto un vecchio compagno di cui si ricomincia a parlare in questa epoca di tracolli finanziari, a dare un calcio nel culo al capitalismo i lavoratori non hanno nulla da perdere, se non le proprie catene. Sono i padroni che hanno tutto perdere. Loro, senza di noi, non potrebbero vivere; noi, senza di loro, vivremmo meglio. Anzi, vivremmo.

Torino, 6 dicembre 2008

Le lavoratrici e i lavoratori delle redazioni di Primomaggio
foglio per collegamento tra lavoratori, precari disoccupati

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